UN MIX AMARO

Quando ero bambino, per un certo periodo per andare a scuola ero solito salire in un certo punto prestabilito su un macchinone americano che per quanto era grande sembrava un pulmino. Aveva i posti davanti, quelli di mezzo e quelli di dietro. A guidare, un omone alto e distinto, non di rado in divisa pronto per andare a lavorare, che per non far pesare troppo le sue frequenti assenze ci teneva, quando c’era, a portare a scuola i figli. Per non perderli di vista, per instaurare un minimo di dialogo, anche se poi non è che si facessero chissà quali grandi discorsi. Tre figli maschi, di cui due vicini alla mia età (il terzo andava al liceo e a scuola ci andava da solo), che condividevano con me il tragitto casa-scuola. Erano come cane e gatto, distanti un solo anno, presi sempre da violenti gelosie che il padre calmava con un solo gesto o un urlaccio improvviso. Il problema era che il padre, come detto, era spesso assente: la madre e la nonna, donne di casa, le regine della villa a più piani che loro governavano con mano ferma, questa gelosia non riuscivano mai a spegnerla. In quella macchina, e anche nella frequentazione che avevo con quella famiglia, mi toccava sempre di dover scegliere l’uno o l’altro nelle loro inutili contese. Chiaramente, ogni mattina la lotta era per piazzarsi nel sedile posteriore, che faceva molto “ultimo banco del liceo”; il padre, per calmarli, spesso e volentieri ordinava col suo vocione impostato che mi ci mettessi io, là dietro, perché nessuno dei due se lo meritava con le loro lagne e i loro battibecchi idioti. Questa routine mattutina è durata un anno; poi ho cominciato a prendere il pulmino.

Io sono il figlio della migliore amica della moglie. Loro, all’epoca, una delle famiglie più in vista della cittadina che, in virtù dell’antica amicizia fra mia madre e la loro madre, ci concedevano delle attenzioni che altre persone elemosinavano. Si sa che il benessere economico e familiare attira molte invidie; ma ci sono anche molte persone che ronzano attorno, se le cose vanno bene, attendendo chissà che cosa, magari semplicemente di brillare di luce riflessa. Quando salivo su quel van metallizzato e lucente, io brillavo di luce riflessa: mi guardavano scendere dall’auto spingendo quel pesante sportellone per chiuderlo e negli occhi di alcuni leggevo della meraviglia. Molto probabilmente si chiedevano: ma come ha fatto ‘sto ragazzino sciapetto a conquistarsi il privilegio di viaggiare in quella macchina e con quella famiglia? D’altronde nelle piccole cittadine questi simboli di status sono importanti. Non c’è molto da dire e da fare, perciò incamerare questi dettagli e badare a questi minimi posizionamenti sociali è uno sport molto praticato.

Loro conoscevano tutti, salutavano tutti, sapevano sempre a chi rivolgersi per ogni evenienza; giravano sempre a testa alta, al circolo del tennis, nelle occasioni mondane come i concertini in piazza e il palio di primavera: avevano confidenza con tante persone, ma appena giravano l’angolo i commenti che facevano sugli altri erano sempre dello stesso tenore, e generalmente poco onorevoli. Nessuno era veramente alla loro altezza. Tutti erano troppo sempliciotti, o avevano qualche caratteristica risibile da prendere per i fondelli, o erano strani, o erano fuori di testa, o facevano dei tentativi patetici per approcciarli. Loro erano la famiglia perfetta, e in effetti tutti ne eravamo convinti. La mia famiglia in primis: l’amicizia che c’era fra di noi faceva passare questa sensazione sottotraccia, ma in fondo li guardavamo come un punto di riferimento, come un piccolo modello. Erano su un altro livello e io lo percepivo chiaramente. Nella loro gentilezza e nella nostra confidenza, ero in particolare io a subire un loro sguardo benevolo ma compassionevole: ero delicato, non condividevo il modo loro e il modo dei loro figli spavaldo e noncurante nei confronti della vita. Mi hanno sempre trattato bene, ma non riuscivo mai a scrollarmi di dosso un senso di inferiorità, continuavo a sentirmi addosso questo giudizio implicito. La vita si affrontava come la affrontavano loro, non in punta di piedi.

Tutto procedeva bene per loro, quindi? Sì, eccome. Ma i figli non andavano bene a scuola ed accumulavano bocciature. La spiegazione che ci davamo a casa era che questi figli vivevano nella bambagia, avevano tutte le comodità e sapevano di avere il famoso culo parato. Anche loro facevano parte della categoria “in qualche modo ce la faranno”, a cui appartiene anche il personaggio di un altro post precedente. Ma c’era un altro fattore: con i loro mezzi e la loro agiatezza potevano non curarsi dei libri e della scuola, era una modalità che veniva loro in qualche modo trasmessa, e che loro assimilavano. Ci provavano, quel padre, quella madre e quella nonna, ma molto probabilmente non ci credevano fino in fondo. Anzi, no.

Non intervenne una motivazione eclatante, ma una volta abbandonata l’infanzia e divenuto adolescente non ho più frequentato assiduamente quella casa e quella famiglia; non riuscivo a scrollarmi di dosso quel senso di inadeguatezza, e non saprei dire quanto fosse una mia paranoia o quanto loro la alimentassero. La alimentavano, comunque. Negli sguardi e nelle mezze parole, che forse sono anche peggio delle parole intere. Furono più che altro le due madri a rimanere in contatto. Era un finale prevedibile. Non collimavamo del tutto reciprocamente, anche se tutto sommato avevamo un bel rapporto e loro erano tutti delle brave persone.

Tanti anni sono passati.

Il padre, quest’uomo autorevole ma buono, una persona attiva, con una vita piena, un comandante in campo, come lo ha chiamato spesso mia madre, è stato colpito da una malattia stronza e inesorabile, che l’ha ridotto praticamente come un bambino indifeso. È finito per essere il contrario di quello che era: da un uomo tutto d’un pezzo, sempre pronto di fronte ad ogni evenienza, la quintessenza della figura paterna e del senso di responsabilità…a una persona spaurita, completamente dipendente dalla famiglia. Un totale ribaltamento. Ma prima di questo triste cambiamento, avevano già pensato i figli culo parato a complicare la situazione.

Il figlio grande è uscito con le ossa rotte da una relazione infelice, a cui sono seguite tante e varie vicissitudini.

Il figlio di mezzo e il figlio minore per varie ragioni hanno lasciato diversi debiti, anzi buffi, come si dice nel Lazio, come dice sempre la madre ogni volta che si confida con la mia. Solo buffi. Oltre ai buffi, questa donna si è praticamente annullata per seguire un marito non più presente a sé stesso. Una donna benestante di provincia, distinta, affabile, tranquilla e sicura di sé, divenuta l’ombra di sé stessa.

Il padre è morto qualche giorno fa. Non ce la faceva più e si era completamente lasciato andare. Adesso la madre e due dei tre figli sono rimasti da soli in una villa che è troppo grande per loro, un ricordo della grandeur di quando le cose andavano ancora molto bene. È una parabola che, ad assistervi da lontano, mi ha incredibilmente intristito, perché non si meritavano tutto questo e perché i declini sono sempre piuttosto tristi. A questa mestizia aggiungerei – forse impropriamente, ma non riesco a scacciarlo – il ricordo personale di quell’inadeguatezza che provocava il confronto con tutti loro, che erano sempre meglio, che erano più belli, più fortunati, più disinvolti, più e basta. Un mix molto amaro. Il tempo è trascorso, eccome se è trascorso, non c’entra più niente, è anacronistico ed è quasi fuori luogo, eppure quel ricordo non scompare mai.

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