Mi è capitato di rivederla. Per la precisione, dalla fine del nostro rapporto di amicizia, per due volte.
La prima volta solo di striscio, praticamente.
Nel paesello dove vivo si stava tenendo un’improbabile e poraccella rassegna di abiti da sposa all’aperto, in piazza. Io ci capitai perché volle andarci una cara amica di famiglia genovese, che scorrazzavamo in giro in un’estate torrida dalle mie parti in Central Italy. L’amica di famiglia si doveva sposare, e la ricordo estasiata a svolazzare attorno a ‘sti quattro straccetti svolazzanti, felice per il solo fatto di dover convolare a nozze; però concordò con noi che questi abiti erano abbastanza di mezza tacca. L’elemento rilevante è che su un palchetto si esibiva ballando – vestita ovviamente in abito da sposa – questa ex amica, che faceva danza nel tempo libero. Lei che al liceo e anche oltre era solita dire: io non sono una da matrimonio!
La seconda volta ci fu un confronto semi-diretto.

Davanti ad un bar, in una piccola isola pedonale, me la ritrovai a correre appresso ad un frugoletto che aveva appena iniziato a camminare, credo. Era suo figlio. Per forza: la madre di lei gli diceva “bravo, annonna!” e l’ex amica è figlia unica. Lei che al liceo era solita dire: io non credo che vorrò mai figli! Ci dicemmo: ciao, a mezza bocca.
Mi sono liberato dal suo giogo ormai dieci fa, se la memoria non mi inganna. Anche di più, perché se non ricordo male la liberazione avvenne nel 2013.
Il mio grave errore fu quello di assumere con lei un atteggiamento caritatevole. Poverina, ci tiene tanto a me, perché dovrei accannarla? Non mi pare giusto. Qualcuno me lo disse, che sbagliavo, ma io continuavo a ripetermi poverina, io non ho motivi per lasciarla da parte. Ma non la sopportavo più da anni, quella delicata cappa che aveva provato ad avvolgere attorno a me.
Il suo modo di relazionarsi alle persone era quello della piovra che racchiude il malcapitato entro il suo cerchio magico.
Al liceo ci trovammo per la prima volta nella stessa classe in quarto superiore, arrivando nella mia classe a seguito di trasferimento del padre. Caddi parzialmente nella sua rete. Anelava un rapporto esclusivo: non doveva frapporsi nessuno fra noi, almeno nelle sue intenzioni, perché nel mio caso, pur provando ad attirarmi nella sua rete, avevo un rapporto già consolidato con diversi elementi della mia classe e riuscii a non finire del tutto nel gorgo. Ma per conquistarmi degli spazi di autonomia annaspavo.

Era una ragazza molto avvenente che attirava un sacco di ragazzi, ma era molto furba: li esaminava con molta attenzione e poi sceglieva con molta cura, peraltro fra quelli che erano piuttosto ambiti dalle pulzelle attorno a lei/noi. Questi prescelti nel gorgo ci finivano con tutte le scarpe: immediatamente li rinchiudeva entro uno spazio fatto di mamma, papà, migliore amica, migliore amico (aveva eletto me), cene a lume di candela, gioielli il giorno del compleanno (guai se non le venivano regalati, erano per lei segno di dimostrazione d’amore), viaggi a due, relazioni già di stampo adulto attorno ai 18-20 anni e anche se la storia durava qualche mese. Il risultato? I prediletti nell’abisso ci restavano volentieri, erano soggiogati. Vidi uno o due di questi ragazzi piangere dopo essere stati lasciati. Le sue prede le sceglieva benissimo.
Le sue armi predilette erano frasi taglienti come: non mi chiami abbastanza, vuol dire che non ci tieni; io ti chiamo sempre, tu mai; io ti ho chiamato, adesso tocca a te; sappi che io ci tengo veramente a te, gli altri non so; io ti sono fedele e ci sono sempre, gli altri no; io do molto e pretendo molto; e tutto un campionario simile.
Con la fine della scuola provai ad allontanarla. Mi ripescò, perché sapeva essere molto affettuosa. Il cerchio magico in cui rinchiudeva era abbastanza confortevole, se non ci si stava troppo a pensare. Ebbe un ruolo anche la sua migliore amica, con cui a mia volta feci amicizia e che sopportavamo assieme. Guai, guai, però, a legarmi troppo strettamente a questa sua migliore amica: il perno di questo piccolo mondo doveva rimanere lei, e in questo piccolo mondo erano compresi anche i suoi genitori e i suoi familiari che non mancavano mai di esaltarla: e come è brava! E come è bella! E come è tutto lei! In effetti, era una ragazza dalla sicurezza schifosa, abile in tutto ciò che faceva. Brutto da dire: suscitava invidia in me, nei fidanzati, nell’amica. Un impasto sbagliato.
Ma io avevo un innegabile vantaggio: non poteva avere con me un rapporto troppo stretto, per non infastidire i suoi boyfriend, perché dopo tutto ero maschietto. La sua era un’amicizia estorta (anche per mia colpa, naturalmente), ma io non avevo gli stessi obblighi pressanti dell’amica e dei fidanzati; con me tollerava che non fossi del tutto dipendente. Della mia omosessualità non venne mai a sapere; pensavo che non si meritasse un coming out, anche perché era una degna esemplare della provincia profonda, dopotutto: frivola, materialista, tutta apparenza, fintamente aperta ma impregnata di quel bigottismo piccolo-borghese che non le avrebbe permesso di capire.
Mi potevo permettere, dunque, anche di dirle che certi atteggiamenti non mi stavano bene. Nell’ultimo periodo della nostra amicizia io feci presente alcune cose, e, complice un fidanzato importante gelosino e altrettanto richiedente, i lacci pian piano si stavano slegando. Non riuscivo però a svincolarmi del tutto, e ad un certo punto capii che era quello che volevo: slegarmi. Alzavo gli occhi al cielo ogni volta che mi contattava. Ci provai più di una volta, ma i tentativi andarono a vuoto, forse perché troppo blandi.
Un banale giorno, sorse una discussione altrettanto banale via…sms (ebbene sì, che reperto archeologico. Mi sto sentendo Matusalemme). Mi lamentai apertamente, e stavolta in maniera meno calma, di questo consueto giochino del conteggio delle telefonate/dei contatti. Lei mi rispose in maniera molto antipatica e ruvida e io le scrissi che non sentivo più l’amicizia nei suoi confronti e che doveva smettere di contattarmi. Non sento più l’amicizia, le scrissi proprio questo. Nel giro di uno scambio di battute divenni irremovibile: non risposi più alle sue telefonate, e le negai qualunque forma di confronto. Lei chiamò persino i miei genitori, ma io la cancellai assieme ai suoi (ormai paleozoici) sms. Sbagliai, in parte. Ma mi liberai. Ed era stato persino facile!
Qualche tempo dopo la rottura, rividi la sua migliore amica. Anzi, anche lei, EX. Avevano litigato ferocemente, erano arrivate addirittura alle mani. Mi rivelò che anche lei si era sentita liberata. Mi fece capire chiaramente, però, un’altra cosa: che al di fuori del cerchio magico che era solita crearsi, lei non esisteva. E di questo avremmo potuto essere coscienti già dai tempi del liceo, quando, nello spazio esterno a quello da lei tracciato, attirava molteplici invidie e piccoli/grandi risentimenti. Nel suo piccolo mondo era l’assoluta e venerata protagonista; al di fuori, non era niente.
