LE CANZONI IMPEGNATE ED IMPEGNATIVE DEL PRIMO RENATO ZERO

Il secondo posto al Festival venti-venticinque di Lucio Corsi ha riportato alla mente di molto quel primo Renato Zero degli anni ’70, sia per il look da folletto glam eccentrico che per lo stile musicale. Allo stato attuale è un Renato particolarmente misconosciuto. Le folle vanno ai concerti cantando a squarciagola specialmente altri successi, come la maliziosa “Il triangolo”, la sognante “Il carrozzone” e la solenne “I migliori anni della nostra vita”. Ma altre canzoni hanno fatto parte della sua lunga carriera.

I miei genitori e mia zia raccontano che andarono a vederlo proprio agli esordi, quando si esibiva in un tendone itinerante, e mi ripetono spesso che pensarono quanto fosse diverso dagli altri. Si chiedevano: “Ma chi sarà mai questo?”, ammettendo anche una punta di sconcerto. Pareva sceso dalla luna, in un contesto musicale italiano ancora per molti aspetti retrivo.

Le prime canzoni di Renato Zero, e i relativi album, non ebbero grande successo. Il primo album, “No, mamma, no!” del 1973, passò abbastanza inosservato, ed un destino simile avrà il secondo, “Invenzioni” (1974); solo con “Trapezio” del 1976 riuscirà ad avere un discreto riscontro, prima del boom capitatogli alla fine degli anni Settanta.

I brani dei primissimi album, d’altronde, non erano semplici da digerire per un pubblico abituato a ben altro, specie per quanto riguardava la canzone italiana, in cui a farla da padrone erano la melodia, la tematica amorosa, l’argomento politico di stampo soprattutto cantautoriale (che in quegli anni ’70 non era da trascurare). Molto forte è l’influenza glam rock alla Bowie; ma soprattutto i temi trattati nei brani erano inediti ed “estremi”, difficili da metabolizzare per il grande pubblico. Ecco una piccola rassegna (non esaustiva) di alcune di quelle canzoni:

No, mamma, no! (1973)

La canzone che dà titolo all’album è uno di quei pezzi che poi hanno acquistato notorietà anche in seguito. Si dovrebbe trattare di un brano che tratta di una generica ribellione del figlio nei confronti della madre, o perlomeno la vulgata dominante sul brano è questa. Su Wikipedia, ad esempio, si dice genericamente: l’autore contesta alla propria madre gli insegnamenti a cui è stato sottoposto. Ma a me sembra una lettura molto semplicistica, perché invece il testo allude ad altro, e nemmeno si può troppo parlare di allusione. Viene tratteggiata un’ambientazione ben precisa, che è quella di una clinica o comunque di una struttura sanitaria. Chi dice “io” nella canzone è finito in una clinica a temere il buio e le crisi isteriche e rimprovera questa madre di essere come lei non avrebbe mai voluto. Ovvero…folle? Strano? Omosessuale? Negli anni Settanta purtroppo la pratica di “consigliare” il manicomio per “curare” diverse problematiche mentali e l’omosessualità ancora resisteva. Le canzoni di Renato Zero spesso si prestano (non a caso) a più letture: sottotraccia, da questo testo, questo delicato e drammatico tema sembra affiorare. Peraltro, quella del manicomio e dell’internamento, è una tematica che appare anche in un altro brano dell’album successivo di Renato, “Mani”: nata – racconta Renato – «dal vedere Santa Maria della Pietà a Roma, ovvero il manicomio di allora, dove si strappavano i malati alla follia usando elettrochoc e abusi, che certo non curavano nessuno». Basti considerare anche quella triste vicenda che scosse l’Italia di poco tempo prima, il processo ad Aldo Braibanti per “plagio”, reo di aver cominciato una relazione con un altro uomo che fu sottoposto a cure psichiatriche in un manicomio.

Ecco a voi Renato dapprima in mezzo alle frasche e poi sul palco a cantare “No, mamma, no!” in un video del 1977

Sogni nel buio (1973)

Renato Zero è sempre stato un artista plurale. Viene detto anche da Andrea Pedrinelli, nel libro Universo Zero: Infatti il primo Zero, a dispetto delle apparenze, non è particolarmente spinto né trasgressivo. Moralista e idealista, semmai: una cifra che confermerà anche nelle provocazioni per cinquant’anni e che attraversa tutti gli undici brani di NO! MAMMA, NO! Trasgressione (più o meno riuscita) e richiamo a valori tradizionali attraversano insieme molta della sua opera. “Sogni nel buio” appartiene al secondo filone, essendo una canzone apertamente antiabortista. A prescindere di come la si pensi in merito, l’espediente usato nel pezzo di far parlare direttamente il bambino in grembo mediante un recitativo non lo trovo ben riuscito. Rientra in quella tendenza del Renato eccessivamente retorico che affiora non raramente nel suo repertorio. Il tema antiabortista ritornerà altrettanto apertamente in “Il cielo”, con una dichiarazione molto più famosa: “Un altro figlio nasce e non lo vuoi…amalo!/Gli spermatozoi, l’unica forza tutto ciò che hai/Ma che uomo sei se non hai…il cielo!”.

Una sedia a ruote (1976)

Un tema delicato lo si affronta anche in questo pezzo. Si parla di disabilità, della volontà di chi è disabile di venire accettato e non marginalizzato, un grido d’allarme sicuramente non incomprensibile. La sensibilità nei confronti di questo tema infatti nasceva solo lentamente in quegli anni e lui in un certo senso la intercetta; ma va anche ben oltre, perché il testo allude chiaramente al diritto di chi è diversamente abile di amare, andando oltre alla mera accettazione. Il pezzo risente moltissimo dell’atmosfera dell’epoca, anche musicalmente con delle venature prog, e con l’aggiunta del consueto pathos zeriano (che, come detto a volte, è ben dosato, altre volte no).

Qualcuno mi renda l’anima (1974)

Anche in questo caso la canzone apre uno squarcio su un tema delicatissimo. Chi parla in prima persona nel testo è un ragazzo, un uomo, ormai cresciuto, che rievoca una violenza subita da bambino; alla fine l’io diventa noi, un gruppo di persone che si fanno portavoce di una comune e triste testimonianza. Sia musicalmente che testualmente il brano, nella sua crudezza, riescono almeno in parte a sfuggire a quella tentazione eccessivamente retorica in cui ogni tanto Zero scade. Mi sembra efficace in particolare l’idea di quella “perdita dell’anima” che chi è stato abusato si porta dietro anche nell’età adulta, la persistenza del bambino ferito. Un brano riuscito e toccante.

Depresso (1974)

Una marcetta che a primo ascolto appare sostenuta e su di tono, ma musicalmente appare immediatamente un contrasto con il tema della depressione, che anche in questo caso si combina con il tema della follia e dell’internamento coatto. D’altronde per tanto tempo (e a maggior ragione all’epoca) nel sentire comune la depressione e la follia si sono mescolate (e forse Renato ne parla in modo un po’ ingenuo). Ma in un certo senso il “depresso” sembra apparire come colui che non si conforma al mondo, che è “diverso”, che si oppone al progresso e che in fondo è felice di essere depresso, in quanto non riesce ad aderire al mondo circostante. Anche in questo caso, una lettura doppia.

Un uomo da bruciare (1976)

Qui sbrodolo un pochino perché fra questi presi in esame è il mio brano preferito. Una lettura doppia e forse tripla emerge anche da qui. In questo pezzo, nel testo, ci dovrebbe essere lo zampino di Mogol. Uso il condizionale perché su quest’accreditamento c’è un po’ di nebbia: io avevo letto che non era certo. Non si capisce se questo coinvolgimento sia stato rinnegato, quanto sia stato rilevante all’interno del brano o se invece servisse a lanciare un Renato ancora non nel pieno del successo.
La lettura più immediata della canzone è quella di un giovane che insegue sogni di accasamento con una ragazza che è avida di un buon posizionamento sociale: per conquistarla questo giovane perde contatto con le sue origini per “imborghesirsi” e vivere una vita non pienamente sua. Renato, a voce spiegata, gli consiglia di scappare perché perdere contatto con sé può avere conseguenze molto negative e perché con questa donna finirà per essere annullato. Nel generale peana della famiglia e dell’amore coniugale, il consiglio che Renato canta all’interlocutore è decisamente in controtendenza: ci si allontana qui decisamente dal versante dei valori tradizionali.
Per queste ragioni, “Un uomo da bruciare” è una canzone d’amore non convenzionale, perché racconta la coppia da una prospettiva differente, non quella dei tormenti o della gioia o della passione, ma da quella dell’amore e del matrimonio come elementi limitanti che potenzialmente sono in grado di rovinare la vita e far snaturare, di “cancellare il proprio nome”. La cosa più importante, per Renato, è la libertà e la vera essenza della persona, in contrasto con la solita visione della canzone all’italiana che idealizza l’amore e la famiglia “borghesi” o che racconta più che altro delle pene d’amore. E ciò viene rappresentato con un testo semplice ma non banale (risultato non facile da raggiungere). Quindi non un argomento “tosto”, ma una visione innovativa di un tema su cui era facile cadere nella banalità. Un Renato antiborghese (lontano anni luce di quello dagli anni ’90 in poi): forse anche questa è un’altra forma di trasgressione.
Qui non ci sarebbe troppo da dilungarsi: il fulcro del brano sembra essere molto chiaro.
Eppure – come peraltro anche prospettato su YouTube in alcuni commenti sotto il video – di pancia mi sembra di vedere qualcosa in più in questo brano, che va oltre il senso immediatamente evidente. E se anche in questo caso l’invito fosse a non rinunciare alla propria omosessualità, snaturandosi del tutto nell’impelagarsi in una normalità “matrimoniale”? (Come peraltro avviene neanche troppo raramente).

Per “Un uomo da bruciare” addirittura un video d’epoca, direttamente dal 1977, dal programma andato in onda sulla vecchia Rete 2 “Zero & co”

Salvami (1976)

A prendere la parola qui è addirittura un prostituto. Ancora una volta l’ambiguità di significato la fa da padrona, rendendo quindi più complicata l’interpretazione. Anche in questo caso vado a memoria: lui disse che questa canzone era dedicata a tutti quelli che faticano ad andare avanti in generale “nella strada della vita”, che arrancano e desiderano ardentemente di cambiare, di scappare da una situazione negativa. Per quanto però si possa “ampliare” e passare a significati altri, a dire “io” nella canzone è comunque un prostituto che lamenta la sua condizione (e anche cantare di prostituzione maschile non era certo qualcosa di frequente, nell’Italia degli anni Settanta). Ma dalla figura di chi vende semplicemente il proprio corpo si può intendere, da questo brano, che ci si riferisca anche a chi si vende o si è venduto in altre maniere? Un prostituto da marciapiede o uno che ha venduto la propria anima e le proprie aspirazioni? Il tema del “vendersi” e del tradire sé stessi è molto presente nelle sue canzoni. Non a caso il primo brano che lancia davvero in hit parade Renato Zero è “Mi vendo”. “Salvami”, una canzone piano e voce che si apre poi in un grido disperato di aiuto (come molto pezzi di Zero) credo che racconti come, vendita del corpo o vendita dell’anima, la perdita dell’autenticità è una lacerazione da cui fuggire a tutti i costi. Ci si ricollega in un certo senso al tema che viene cantato in “Un uomo da bruciare”. Ma, sempre assecondando il doppio binario di significato di molte canzoni zeriane, ci si rifà ancora al tema degli “ultimi” della società, come coloro che finiscono costretti a frequentare la strada per sopravvivere, sebbene il prostituto sia dolorosamente consapevole che quello non è il posto suo e non si capaciti di come ci sia finito.

Da queste prime canzoni in poi, ed in particolare dal 1977 con la sua prima hit “Mi vendo”, il destino di Renato Zero cambierà completamente: si apriranno le porte di un successo trasversale e duraturo.

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