Sono passati anni. Non tantissimi, ma ormai è passato remoto, in tutti i sensi.

Mi ero laureato da quasi un annetto. Lavoricchiavo e mi barcamenavo a fatica; non ero certamente l’unico, in quella Italia post crisi finanziaria del 2008. Non vedevo molte prospettive, in quel momento: i media, i genitori, i gggiovani e il cosmo erano tutti impegnati a lamentarsi della crisi; era una mancanza di prospettive sicuramente esistente, e che veniva ulteriormente amplificata dalla grancassa della qualunque, mixandola con la mezza accusa dei ragazzi choosy della sora Elsa (immagine di repertorio qui accanto). E allora mi sono detto: ma buttiamoci nel settore più cool e più innovativo, il futuro, quello che farà impennare redditi e soprattutto gratificazioni personali! Facciamo un bel master in web marketing. Del resto, avevo avuto un’esperienza fugace in quel campo, grazie ad un conoscente; quindi, mi risolsi per intraprendere definitivamente questa strada.
Per addentrarmi in quest’esperienza, rinunciai ad un’altra strada che si stava lentamente aprendo (ma che era all’epoca faticosa ed erta di ostacoli, e lo è ancora e lo è sempre). Scegliamo ‘sto benedetto f u t u r o!
La società di formazione che lo proponeva era anche una società di consulenza nel settore. Il sito web pullulava di testimonianze positive di uomini in completo e di donne in tailleur che tenevano sempre a sottolineare come non avevano trovato solo una strada lavorativa (che poi, col senno di poi, anche lì…), ma anche una ricchezza e una soddisfazione che pensavano non poter raggiungere nella loro vita professionale! C’erano anche clienti e certificazioni, tutto meraviglioso e festoso, e che trasudava innovazione, apertura, figaggine. Per non parlare di quelle fotine rotonde, quelle bio fra il professionale e il faceto, tutte uguali e seguite dall’espressione “non necessariamente in quest’ordine”. Le ho sempre odiate, ma è una cosa mia, sicuramente.

Io ovviamente ci sono andato a cascare. D’altronde, in qualche modo ci si doveva barcamenare, e, se ci si barcamena, da qualche parte vai a sbattere. Le parole barcamenare e sbattere non sono usate a caso. La vendita della felicità, dai e dai, prima o poi attecchisce.
Al colloquio mi accoglie un ragazzo molto gentile e delicato che mi fece un’ottima impressione. La sede era nel quartiere in espansione, pieno di fermento (pure lì mica poteva andare diversamente), e all’interno un ambiente molto allegro con il solito biliardino d’ordinanza. Il biliardino! Lì avrei dovuto capire qualcosa. I dettami provenienti dalla valle del silicone, all’epoca punto di riferimento positivo ed obbligato baluardo di riferimento del nuovo che avanzava (se pensiamo a come siamo finiti oggi…), erano quelli: informalità e biliardino. Oggi dal calciobalilla alla tecno-oligarchia.
Il colloquio era una mera proforma: bastava sganciare i pippi, i sacchi, i dané (cit) ed eri abile e arruolato.
Prima di iniziare il master ero rimasto colpito, andando a curiosare in altre realtà del settore, come come dato di partenza c’era sempre ‘sta persistente positività, troppa, eccessiva, ostentata: tutto meraviglioso. È ovvio che delle agenzie non possono trasmettere negatività e far credere che chi le gestisce sia un’ameba. Ma era tutto eccessivo. Non era soltanto un luogo di lavoro: si vendeva una prospettiva di vita, un mood, gli slogan promettevano di cambiare la società, il digitale, il mondo, l’universo, promettevano di dare la realizzazione personale e quasi la felicità. Le agenzie non promettevano solo conversioni e vendite, ma vendevano pure il lavoro stesso. A me questo sembrava di avvertire, e anche molto fortemente. C’era come il bisogno di vendere anche la mansione in sé…per renderla meglio di ciò che in realtà è? Ma cosa vai a pensare!
I miei compagni di master erano tutti più convinti di me. Io mi ero già mezzo freddato. Mi rendo conto che era un punto di partenza discutibile…Sì, è vero, avrei speso dei soldi, ma erano soldi miei ed in fondo erano solo tre mesi. Una voce interiore mi avvertiva di uno stridore fra le aspettative alte e quello che si muoveva nel fondo limaccioso della mia coscienza .

Una ragazza si presentò con il volume di Sun Tzu “L’arte della guerra”. Era già entrata in contatto con tutta quella pletora di blogger di settore che non pretendevano di parlare semplicemente del loro mestiere, ma di insegnare un’attitudine di vita. Io nella mia ingenuità pensai un significativo BOH. Gli altri se la guardarono come a voler dire: ‘ammazza, manco hai iniziato e già cominci così?”. Persino quelli della società rimasero perplessi. Lei era pronta a fare l’amazzone di una guerra combattuta con mouse e tastiera. In realtà, era una tranquillona, ma purtroppo aveva respirato i miasmi tossici di tutto quel blogging.
Il corso era ben realizzato. I consulenti/docenti erano chiari e disponibili. Anche i docenti esterni erano ottimi. Adesso voglio semplificare volutamente per rendere il me ingenuo dell’epoca: a me sembrava tutto sommato di stare formandomi per un lavoro come un altro. C’era una parte creativa che era tutto sommato interessante, c’era il social monitoring, il SEO writing e tutta una pletora di anglicismi da far girare la capoccia. Ma al contempo, occorreva confrontarsi con i fogli Excel, i budget, i conti della serva, la pubblicità targetizzata con quegli strumenti del demonio, la vendita degli spazi…insomma, un lavoro che effettivamente poteva essere interessante, ma un lavoro come un altro, con le sue attrattive, ma anche le sue problematiche. Lo aveva spifferato a mezza bocca un relatore, in un attimo di disincanto che era stato arato dai docenti del master. Io ho capito presto che non era propriamente la mia tazza di tè, e forse nel mio racconto sono condizionato da questo.
Il punto è che veniva trasmesso un sentimento sovraeccitato in relazione a questo mestiere. I web marketer all’epoca cominciavano – credo – a sentirsi sulla luna. Facebook era il centro di un nuovo universo a cui partecipavano tutti, e si era in piena estasi da networked society (scusate i continui anglicismi ma sono intonati all’argomento). Sembrava prepararci un futuro luminoso, il faccialibro e anche il Twitter che già si stava costruendo la nomea di social che piace alla gente che piace. L’impressione forte che ricavai da quest’esperienza è che i web marketers erano impegnati in un doppio lavoro: portare avanti il loro mestiere e promuoverlo incessantemente, così come promuovevano prodotti, cause e aziende. Pregni di un lessico e di un atteggiamento veloce, dinamico, spiccio, senza lungaggini, fattivo, carico…si stava peraltro preparando al governo un giovane toscano che interpretava tantissimo questa modalità. Proprio lui: Renzi! La sua disinvoltura mi sembrava sempre quella del web marketer che si apprestava a dominare il mondo.
Chiaramente anche gli allievi erano entrati in uno specifico sentiment: quello competitivo. Non c’era aperta ostilità, ma un mettersi a confronto in punta di fioretto. La tranquillona aveva prima provato a deporre le armi, poi si era appiccicata sulla pagina Facebook del master con una biondina con la vocetta, ma bella grintosetta. E dire che questa biondina aveva detto a tutti, all’inizio del percorso, “spero che fra di noi si instauri una comunità di pratica”. Sì, un par di palle. La tranquillona aveva osato sottolineare, in teoria senza malizia, che la biondina tradiva il suo – simpatico – accento. La biondina se l’era presa non si sa come e non dovette aspettare troppo prima di infilzarla virtualmente dicendole che voleva primeggiare. Lei. Lo storpio che prende per il culo lo sciancato.
Al momento di presentare il progetto finale, questa tacita competitività si acuì. Non è che i docenti, in fondo, la scoraggiassero: d’altronde la realtà delle agenzie e dei freelance del campo è caratterizzata da una concorrenza anche importante. Non ci fu nessuna aperta ostilità fra di noi, ma tutti si guardavano circospetti come se avessero paura di tradire il segreto del loro progetto. Capirai, ‘ste perle imperdibili. Era venuto un secco allampanato in rappresentanza di una nota onlus a esporci un brief su cui avremmo dovuto lavorare. Lavoravamo a coppie e dovevamo scegliere alcune delle strategie digital che ci avevano insegnato, riunirle in un tutto organico e scrivere una proposta, o per meglio dirla in inglisc, il project work!
Nella giornata conclusiva del master, sarebbe stato eletto il progetto migliore. Io e il mio collega eravamo i più disincantati; dopotutto ‘n ce ne fregava ‘na mazza. Volevamo finire e basta. Duemilaecinquecento euro scuciti sull’unghia e stavamo così: non ci faceva molto onore ma il sentiment (aridaje) era quello. Gli altri trepidavano. Il seccaccio disse una parola di conforto a tutti, facendo emergere le best pratscisc di ciascuno dei lavori: aveva trovato del buono persino in me e nel mio collega. Poi fece una classifica di merito e noi siamo stati messi ultimi a parimerito con un’altra coppia: quest’altra coppia, NERA. Come il carbone. Abbiamo pagato per essere piazzati in fondo alla classifica! Volevano comprarsi la vittoria del project work?
Le altre cinque coppie misero la freccia come dei degni e dinamici web marketer e ci arrivarono sopra. Vinse proprio la tranquillona assieme ad un’altra ragazza: Sun Tzu aveva protetto lei e per osmosi la sua compagna di project work, oppure avevano saputo affilare le armi di una guerra fredda, freddissima, praticamente ghiacciata.
Cerimonie, baci, abbracci, diplomini, fotine: provarono a creare una sorta di evento abbozzato anche per promuoversi su Facebook (Instagram all’epoca era per fotografi, professionisti e della domenica), che però si rivelò molto in tono minore, anche perché eravamo giusto noi, i docenti, un fotografo, qualche parente dei docenti, le pastarelle e lo spumantino. Quattro gatti, un po’ pochi per eventizzare.

La verità fu che non avevamo legato abbastanza, noi di quella edizione del master; e apparve evidente anche da quella giornata finale cloroformizzata nonostante tutto l’hype indotto. Non saprei dire se fosse una mia sensazione o se gli altri presenti fossero sulla mia stessa lunghezza d’onda. La domanda che aleggiava sopra le teste era: E POI? E ORA? Io ricordo un clima un pochino dimesso e queste spade di Damocle. Cosa sarebbe rimasto, inoltre, di noi e di quella esperienza? Ci eravamo ripromessi di andare a mangiare assieme anche con i docenti/consulenti, ma non se ne fece più nulla, anche a causa del fatto che il master terminò in pieno giugno, con l’estate praticamente già fra di noi e tutto ciò che ne comportò. Se ne riparla a settembre, che in una arcinota accezione significa MAI.
Non scrivemmo neanche troppo su quella disgraziata pagina Facebook, perché poi si instaurò un’altra tacita occasione di competizione: i colloqui per arraffarsi uno stasg demmerda. Eh già, perché i docenti/consulenti si occupavano anche di pleisment, erano multitasching, e mica se ne occupavano in maniera sartoriale: mandavano due-tre di noi ai colloqui di quelle che erano le agenzie/aziende interessate e quindi l’uno temeva di rivelare all’altro la sua presenza al colloquio stesso. Di conseguenza, nessuno lasciava trapelare troppo del suo destino post-masterino. Alcuni avevano mangiato pane e volpe e lasciavano tracce sul loro profilo Facebook. Io ero rimasto in contatto con la tranquillona e lei mi confidò che aveva capito di essere in competizione con un altro masterizzato, un siciliano fisicato e fanatico, che si era tradito perché aveva postato la foto di un ascensore futuristico pieno di bottoni, cazzi e mazzi. Era quello dell’agenzia presso la quale avevano fatto entrambi il colloquio. La tranquillona non era tranquilla, perché il ragazzo siciliano aveva quel savoir faire da persona dinamica, smart, veloce, intuitiva, concreta e tutta quella serie di aggettivi ipertrofici cari al settore. Vinse però la tranquillona ancora una volta, che ormai aveva Sun nelle vene e quindi pareva in grado di superare ogni battaglia. Degli allievi di quel master era la più dotata: inutile girarci troppo attorno.
Io feci due colloqui. Le proposte che mi fecero furono particolarmente scarse sia logisticamente che economicamente persino per uno steig, senza entrare nei dettagli (ché non sta bene). L’ufficio placement nella persona dei docenti/consulenti medesimi opportunamente riciclati mi disse che purtroppo era estate e tutti pensavano all’ombrellone e alla sdraio: a settembre ci sarebbero state proposte sicuramente più allettanti.
Ma l’avevo perfettamente capito che non era una strada che mi si confaceva, lo avevo capito e lo sentivo, era una questione in parte di pancia, in parte razionale, in parte perché sentivo di non aderire al tipo umano prevalente in quel settore. Molto probabilmente mi sono lasciato guidare dal pregiudizio, non lo nego. Il fatto è che entrai anch’io in contatto con quel mondo di perenne mood su di giri che a me sembrava dominasse. In particolare, con tutto quel giro di blogger e influencer di settore che, a metà strada fra superomismo e informalità, parlavano della loro professione dispensando TIPS a mani basse. Ma ‘sti tips per arrivare al top(s) non riguardavano solo meramente la professione. Il loro coccing si estendeva ben fuori dall’ambito del web marketing: erano tutto un profluvio di consigli tesi a modellare il perfetto webmarketer, in modo che fosse costantemente carico e produttivo, consigli sul quando dormire, come lavorare, cosa bere, come tenere su la barra della creatività, quali manuali di self help e autoaiuto leggere per essere sempre sul pezzo, come ispirarsi, cosa guardare (avevano la fissa di Mad Men e Masterchef). Praticamente un (tossico) continuo vademecum che invadeva tutta la vita, e su come corrispondere a una specie di tipologia antropologica, votata al perenne dinamismo, ottimismo, pragmatismo, movimento, eccetera eccetera eccetera (il tutto forse un filino fine a sé stesso?). Chiedo perdono se ho usato la parola tossico, perché anche questo tipo umano merita rispetto e senza ombra di dubbio si è ritagliato un ruolo importante nel panorama lavorativo contemporaneo e bla bla bla, ma su di me sentivo un effetto di tossicità. Per altri magari era una specie di Gerovital. Io ebbi proprio una specie di repulsa. Anche perché poi si andava anche oltre al laif stail: sempre in virtù del fatto che era un settore rampante e ormai trainante, i blogger e gli influencer di settore si sentivano abbastanza forti per lanciarsi in analisi più generali, sul mondo e sulla società. Li fregava, secondo me, sempre quella tensione al perenne dinamismo, ottimismo, pragmatismo, movimento, eccetera eccetera eccetera il tutto forse un filino fine a sé stesso: tutto spiccio, ma di una mancanza di profondità a tratti disarmante.

Per me arrivò il famoso settembre e nel riparlarne in questo funesto mese… accettai un’altra strada lavorativa che mi si parò davanti proprio in quei primi giorni, perché mi consentiva di accattarmi soldi sporchi e subito, potendo disporre di uno stipendio normale. Mi dissi: “vabbè dai, adesso accetto quest’altro, poi casomai continuo a guardare, rimango in contatto con l’agenzia, sì sì sì, faccio così”. Per farla breve, per me l’avventura nel web marketing finì del tutto proprio con il riparlarne a settembre e questi propositi andarono a farsi benedire. Forse sono stato cattivello o semplificante nel parlare di quell’esperienza e di quel settore, che in fondo ho bazzicato ben poco, ma se devo mettere in fila le sensazioni che mi sono rimaste dopo più di dieci anni, il discorso è questo.
E invece, i miei compagni di corso?

La tranquillona e io siamo rimasti per un po’ in contatto – era la mia vicina di banco di corso ed aveva legato solamente con me, anche se poi fummo sorteggiati con altri corsisti per il project work. Lei si è affermata nel settore, è addirittura andata a lavorare all’estero. Anche la sua compagna di vittoria è diventata una brava web marketer con tutti i crismi. Un altro invece, dopo qualche anno di lavoro in agenzia, si è imbarcato nell’attività di famiglia che con SEO, SEM e compagnia cantante non ha a che nulla a che fare. La biondina, googlandola, fa qualcos’altro che non ho ben inteso perché particolarmente fumoso, ma non inerente a quel master. Il siciliano fisicato lo si può vedere sorridente promettendo fulmini e saette e posizionamenti nell’iperuranio, ma gli ultimi aggiornamenti sulla sua attività risalgono all’era della Brexit. Il mio collega di project work su Linkedin dice di aver lavorato per 8 anni nel campo, ma poi ad un certo punto poco tempo fa ha interrotto il tutto e non si sa poi cosa ne è stato della sua carriera. Degli altri, non saprei. D’altronde, la concorrenza è forte e anche in questo settore in espansione – locuzione che un SEO writer troverebbe logora e direbbe di evitare ad ogni costo, ed io invece l’ho già piazzata due volte – si sta come su autobus: ci sono posti a sedere, posti in piedi e c’è chi non sale e deve prendere un altro mezzo. E può capitare di cadere nella proletarizzazione digitale, non riuscire mai a farcela veramente, passare di fiore in fiore ma non decollare veramente mai.
