
È ormai consuetudine praticamente annuale: i giornali ripetono tutti in coro quanto basse siano le competenze alfabetiche degli italiani, giovani ed adulti, e da lì cominciano tutta una serie di riflessioni social e non social che durano una settimana e da cui ognuno trae le proprie conclusioni, così come accade quasi sempre. Come succede sempre, le opinioni si accavallano per questo lasso di tempo limitato: si capisce poco, o per meglio dire non si lascia capire nulla, e alla fine il discorso si conclude. Arrivederci all’anno prossimo, sempre su questi schermi e su questi titoli di giornale.
L’ultima puntata della saga è uscita a seguito dell’indagine sulle competenze degli adulti (Survey of Adult Skills) realizzata nell’ambito del programma dell’Ocse per la valutazione internazionale delle competenze degli adulti, o per meglio dire nell’ambito del PIAAC (Programme for the international assessment of adult competencies), indagine che – attenzione – è differente da quella OCSE PISA, che riguarda i giovani quindicenni. In questo caso si parla di competenze degli adulti: non sono più autorizzati, quindi, a lagnarsi della deriva dei giovani e signora mia ai miei tempi era meglio!
Adesso voi direte: pure tu vuoi metterti a ciarlare sull’argomento? Risposta: sicuramente potrei anche evitare, ma visto che ne dibattono quasi tutti a prescindere dalle loro competenze, essendo questo blogghetto un diario-sfogo – e non una testata giornalistica nazionale – non posso esprimere i miei due centesimi? Ho insegnato per tre annetti, forse posso esprimere la mia con molta umiltà, sottolineando che per rispondere occorrerebbe porsi secondo un approccio multifattoriale che non è possibile esaurire qui.

Una piccola definizione. Accanto a quest’infografica (ricavata da quest’articolo della rivista SmartWeek), si può dire che l’analfabetismo funzionale per l’UNESCO sia l’incapacità a usare in modo efficace le competenze di base (lettura, scrittura e calcolo) per muoversi autonomamente nella società contemporanea (definizione tratta dal sito della Treccani alla voce “Analfabetismo di ritorno”)
Le conclusioni che mi capita solitamente di scorgere sull’argomento sono le seguenti:
- Nella stampa/nelle opinioni riconducibili a destra, la colpa è del buonismo della sinistra e del Sessantotto;
- a sinistra, si dà la colpa ad alcune riforme regressive della destra, alle quali però la sinistra specialmente nel nuovo millennio ha contribuito in perfetta continuità e pure con tutte le scarpe
- al centro/in area liberale, si prende spunto per dire che “la scuola deve cambiare”: test e rilevazioni sono un mero pretesto per “adeguare la scuola al mercato” e intraprendere un approccio privatistico, il quale – che si sia d’accordo o no – è un cambiamento strisciante che si vuole intraprendere e si sta già intraprendendo;
Tutte e tre le opzioni andrebbero discusse attentamente; la mia sensazione è che come di consueto ognuno strumentalizza l’argomento per tirare l’acqua al suo mulino e arrivare, appunto, alla conclusione a cui si vuole arrivare.

A me piacerebbe aggiungere qualche spunto ulteriore sulla base della mia limitata esperienza.
Un elemento culturale veramente basilare e pervasivo è l’avversione che in Italia si ha nei confronti della cultura, della preparazione e dello studio. È una questione che si percepisce proprio a livello di linguaggio e di atteggiamenti diffusi, che genera tutta una serie di luoghi comuni:
-Chi studia viene bollato come “secchione” – che non ha un’accezione propriamente positiva – oppure guardato quasi con sospetto;
-chi esprime un parere circostanziato e non banale è nell’ordine “professorone”, “maestrino”, “saccente” e tutta una serie di epiteti negativi che già per il tramite del linguaggio la dicono abbastanza lunga sulla considerazione della categoria degli insegnanti;
-proprio a riguardo della categoria insegnante, da decenni è praticamente mortificata da bassi salari, bassa considerazione sociale, considerata un covo di mangiapane a tradimento per il fatto di “lavorare solo la mattina” (falsissimo, ma è un concetto che si continua a ripetere);
-se si ama la poesia e i libri si ha un alone quasi di effemminatezza;
-ci viene ripetuto in tutte le salse che non contano le “parole” e non le “chiacchere”, ma solo il “fare” e i”fatti” (elemento che mortifica il sapersi esprimere e quindi immancabilmente il comprendere): contano solo l’esperienza, le sensazioni impressionistiche; leggere e acquisire dunque un abitudine ad informarsi e comprendere testi è considerato un esercizio inutile e pedante. Esiste ormai un anti-intellettualismo che diventa un po’ preoccupante;
-corollario del punto precedente: chi non studia o non si interessa ad acquisire almeno una cultura alfabetica di base è considerato uno semplicemente pragmatico, che non ha tempo da perdere dietro a quisquilie;
-“parlare come si mangia” viene sempre considerato come qualcosa di positivo, adorabilmente spontaneo e simpatico: e lo è, e si deve pure fare, in certi contesti in cui sarebbe ridicolo esprimersi come un libro stampato: ma la sciatteria linguistica viene ormai estesa a tutti gli ambiti e non c’è più alcun senso di colpa;
-la scuola viene considerata una scocciatura o qualcosa da sfangare il prima possibile, il sapere qualcosa di inutile, e di certo non è un’idea scoraggiata;
-non mancano risatine compiaciute e di complicità, nella vita quotidiana e nei media, quando qualcuno dice che non vuole studiare e che a scuola andava male: che simpatica canaglia!, è sempre l’atteggiamento di fondo. E questo non in riferimento ad una preparazione di chissà quale livello che nessuno pretende per tutti, ma anche di quella basilare, come quella linguistica. Quante volte capita di ascoltare questo tipo di giustificazioni nei media e nei nostri dialoghi quotidiani?
-Non mi soffermo tanto sul discorso delle competenze scientifiche perché non è il mio campo. Va ricordato che l’indagine PIAAC riguarda anche le competenze relative alla numeracy. Diciamo che, sebbene la propaganda sull’importanza delle discipline STEM sia continua (e sicuramente necessaria, per una serie di ragioni), il ragazzo che si interessa di scienza è il solito nerdacchione, e quante volte sentiamo ripetere con vanto il verso della canzone di Venditti “La matematica non sarà mai il mio mestiere”?

Questa è la base, ed è qualcosa che si respira nell’aria e che viene incoraggiato in ogni modo, in maniera sottile. Che si trasmette tutto intero ai ragazzi, e che permane nella vita degli adulti. È tutto inutile, superfluo, pesante, ecc ecc ecc. Molto meglio informarsi superficialmente sui social, prendere ciò che viene e chi se ne frega tutto: leggiamo quello che c’è, capiamo quello che c’è da capire o che si vuole capire e fine della storia. Non c’è da perderci troppo tempo. Sospetto che se non ci si libera di questo mood perenne si farà molta fatica a risalire la china, perché al di là di indagini, interventi educativi e tutto il resto si parte da questo sfondo culturale che non è propizio ad un miglioramento e che è incoraggiato da praticamente…tutte le istituzioni che contano in questo Paese? Ma questo è forse solo un mio cattivo pensiero. Volevo però inserire il parere di un twittero/xero che ho trovato interessante e che è molto calzante e forse completa bene quello che vorrei dire.
Andando più nello specifico dell’insegnamento della lingua, secondo me qualcosa sul modo in cui però si approfondisce lo studio della lingua materna a scuola andrebbe detto. L’insegnamento dell’italiano ha come eterna dicotomia quella “educazione linguistica vs educazione letteraria”. La prima è rivolta al miglioramento delle capacità e delle competenze nella nostra lingua italiana materna (nella produzione, comprensione sia scritta che orale e nella riflessione sulla lingua, ovvero la grammatica e non solo); la seconda invece ad approcciarsi al testo letterario ed in generale alla lettura, nonché alla tradizione letteraria italiana. Detto fuori dai denti, l’insegnante italiano medio è generalmente più sbilanciato sul secondo lato e meno incline all’educazione linguistica, che non dico sia affrontata in maniera superficiale perché non è così, ma non riceve la stessa attenzione e lo stesso livello di cura e formazione in materia dell’educazione letteraria. Ho l’impressione che questo abbia una forte conseguenza: che l’educazione letteraria eclissi quella linguistica, e quindi tenda a perdersi tutta l’attenzione necessaria per quei testi non letterari che fanno parte di quelle competenze nella comprensione basilari per comprendere il mondo attorno a sé: per prendere delle decisioni (di voto e non), per agire nella vita (approcciarsi a contratti, per esempio), e semplicemente per lavorare e non lasciarsi ingannare dalla manipolazione – linguistica e non – che nella nostra società è pervasiva!
Sempre internamente alla scuola, un altro discorso che sarebbe piuttosto esteso è sull’andazzo attuale della scuola stessa: impegnata in mille attività collaterali per tenersi e conquistarsi iscritti, ho la sensazione si stia perdendo l’ispirazione originaria e proprio l’attenzione alla didattica come prima cosa.
Non andrebbe dimenticato poi tutto un dibattito e una serie di studi sulle conseguenze che il digitale apporta alla lettura: si dica che sfavorisca la concentrazione, che leggere su schermo è diverso da leggere su carta, che non mancano le ricadute negative dall’eccessiva esposizione al digitale. Io non sono un esperto in materia, ma il dibattito esiste e c’è chi ha formulato delle risposte anche abbastanza nette (e in negativo). Sul digitale andrebbe detto che urgente sarebbe prevedere un’educazione al digitale stesso e alle sue dinamiche, positive, neutre e negative, e non occasionale, ma ben strutturata, ma anche qui il discorso sarebbe lungo.
La domanda che sorge spontanea, come diceva un noto giornalista, è: ma ci sarà l’interesse a migliorare la situazione? Sono anni che si parla di un calo nelle competenze linguistiche e in particolare nella capacità di comprensione dei testi. Non mi sembra si sia investito molto in istruzione e non mi pare ci siano esempi (sia a livello di personalità ispiratrici che di pratiche) particolarmente positivi che inducano a cambiare rotta. Per tutti i motivi che ho provato a spiegare dal basso delle mie impressioni, anche in futuro a cadenza annuale si ripeteranno le stesse cose, si innalzeranno le solite lamentele ma tutto rimarrà un mero parlarsi addosso.
Per integrare ulteriormente il discorso, chiudo incorporando qui il commento ai risultati dell’indagine PIAAC di una linguista famosa, Vera Gheno, tratto da una puntata del suo podcast de Il Post “Amare Parole”:
