COMPAGNO DELLE MEDIE

Era un giorno come un altro. Scendevamo alla stessa stazione, riconoscendoci, però non dicendoci neanche una parola. Per essere più precisi: lui credo che mi abbia riconosciuto, si è girato a guardarmi. Anzi, non sono sicuro che mi abbia riconosciuto, perché non era – diciamo così – al suo meglio: forse il mio viso gli suggeriva qualcosa, e mi scrutava cercando di ricordarsi chi fossi. Io invece sapevo, e so bene, chi è lui: nome cognome e classe.

Frequentavamo la stessa classe alle scuole medie, infatti. Il primo anno praticamente per me è stata una presenza evanescente. Era un nanerottolo come tutti noi, questo è certo; non lo ricordo probabilmente perché mai l’ho sentito vicino, come persona. Qualcosa in lui mi faceva tenere a distanza di sicurezza e fin da subito. Non mi andava a genio.

Dal secondo anno, invece, i miei ricordi su di lui si fanno più numerosi. In estate, gli era morta la madre, e lui era cambiato, era emerso. Potrei emettere una diagnosi da psicologo fai da te e dire che era in cerca di attenzioni in maniera spasmodica. Doveva essere quello simpatico, quello che animava il gruppo, quello che guidava gli umori della classe, era scattoso, nervoso, rideva sguaiatamente, sfidava i professori. Cercava di impersonare lo “scugnizzello”, il prototipo del casinista delle medie, vivace ma mai con malizia o con cattiveria o in modo truce. Era pur sempre il figlio di un muratore – che ricordo come fosse ieri, perché lo veniva a prendere ogni giorno: un uomo dal viso buono e dagli occhi azzurrissimi – e di…non saprei dire chi fosse e cosa facesse la madre. La madre semplicemente non c’era. Per nessuno. Comunque, aveva alle sue spalle una famiglia ordinaria, improvvisamente menomata da un lutto.

Il problema era che nell’interpretare il ruolo dello scugnizzello aveva in sé qualcosa di disturbante. Niente di grave o di patologico a livelli estremi, o perlomeno non saprei dirlo con esattezza, ma era come se volesse uscire “fuori di sé”, esserci a tutti i costi. Esser visto. A me continuava a non piacere mai. Provavo un po’ di pena (bruttissimo da dire), di dispiacere, di senso di colpa, perché non me lo facevo piacere e lui aveva bisogno, anche se non lo mostrava, non lo VOLEVA mostrare. Era marchiato a fuoco come “quello che non aveva la mamma”, e l’estate dopo, quella prima della terza media, fu un altro nostro compagno a subire quel marchio, solo che lui aveva perso il papà. “Quello che aveva perso il papà”.

La verità è che per noi di quella classe erano due nodi problematici. Non sapevamo come affrontare quella perdita che avevano avuto. Erano i “poverini”. È tristissimo da dire, ma ogni volta che comparivano trasportavano con sé quella nuvola di Fantozzi sopra la testa, e noi non sapevamo che farci con quella nuvola. Posso solo immaginare che desolazione umana possano aver provato due ragazzini con un’assenza così grande, con i coetanei che non li aiutavano più di tanto a colmarla.

Quello che non aveva la mamma era su di giri, mentre quello che non aveva il papà si era un po’ defilato. Non ricordo però che fosse particolarmente triste, si era rifugiato nel pallone e giocava praticamente solo a calcio (è diventato un calciatore, poi, in serie minori). In linea di massima, avevano avuto due reazioni diverse.

A fine ciclo delle medie, la professoressa di matematica per quanto riguarda questo ragazzino si affidò esplicitamente a tutti noi: “Mi raccomando, quello che non aveva la mamma!”. Era spesso bersagliata dalle reazioni negative di questo alunno difficile, ma si preoccupava per lui senza sosta, ne aveva letto il malessere in maniera molto chiara. Si raccomandò a noi, ma il suo appello cadde nel vuoto. Nonostante i suoi tentativi di emergere, di essere visto, di farsi spazio, per esorcizzare chissà quale voragine interiore…con l’estate immediatamente successiva sparì dai radar. Noi, gli altri suoi compagni, continuammo a vederci, a gruppetti, a coppie, non tutti assieme, senza grande assiduità, ma i contatti non si persero del tutto. Con lui, sì. Non rimase nessuna traccia della sua esistenza.

Anni dopo, mi capitò di rivederlo mentre ero con un’altra persona, che mi disse pressappoco, a bruciapelo: “ah, c’è X, lo conosci? È un po’ bruciatello, poverino”. Un termine che vorrebbe essere simpatico, bruciatello, spesso lo si affibbia in maniera scherzosa, eppure in quel momento mi sembrò orribile, perché io di questo ragazzo rimasto brutalmente senza la madre conoscevo il passato, l’origine, anche se ci eravamo completamente persi di vista.

E poi arriviamo ai rari giorni in cui mi è capitato di incontrarlo alla stazione, come quello di cui parlavo all’inizio: alto, non più un nanetto scugnizzello come quel tempo in cui eravamo in classe insieme, trasandato, con lo sguardo arrabbiato, nel suo mondo. Continuava a parlare da solo, a commentare non si sa cosa, a rivolgersi a non si sa chi, in maniera abbastanza sconnessa. Ecco, lo sguardo arrabbiato: proprio come quello che esibiva a tratti quando era un ragazzino. Solo che ora è una maschera fissa.

Mi è tornata alla mente una giornata in cui eravamo, alle medie, fuori in cortile all’ora di educazione fisica, una di quelle giornate spensierate che poi nella vita non tornano più. Non ricordo da cosa scaturì questa domanda, però lui me la rivolse proprio apertamente, senza mezzi termini: “Tu mi odi, vero?”. Io negai: “Ma nooo!”. E invece aveva capito: non è che addirittura lo odiassi, ma era sicuramente una di quelle persone che proprio non riuscivo a digerire; troppo nervoso, troppo ingestibile, troppo problematico. Quando non veniva a scuola, io ero sollevato. Non lo amavo già da prima e questa è stata una sensazione immediata: dopo però, era intervenuta anche la disgrazia che aveva vissuto, con tutto il bagaglio emotivo successivo. E io ero abbastanza incapace di venire a patti con questa “cosa”, e con me gli altri. Lui la mia avversione l’aveva compresa nitidamente, però: e quella domanda la fece proprio a me, e non ad altri.

Quando l’ho rivisto, in definitiva, ho provato lo stesso senso di colpa di me dodicenne-tredicenne che non accantonava mai quell’avversione di fondo per un altro essere umano in evidente difficoltà.

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