Inutile girarci attorno: sono un appassionato del Festival di Sanremo. Negli ultimi anni c’è stato un vero e proprio revival festivaliero, grazie soprattutto agli anni di Amadeus; quindi, è divenuto un argomento meno oggetto di alzate di sopracciglia: un tempo facevo fatica a dichiarare questa mia passione. Ogni volta che ci sono anticipazioni sul Festival prossimo venturo me le vado a leggere avidamente, faccio regolarmente le due di notte durante la settimana santa sanremese anche se devo alzarmi presto la mattina, e mi piace non poco andare a spulciare nella storia del Festival, secondo quel solito luogo comune secondo il quale storia di Sanremo = spaccato della società italiana. Sarà così? Non mi pronuncio (è ormai un luogo comune, appunto).
Inizia quindi su questo blog un’umile rubrica tematica sul Festival, approfittando del fatto che Carlo Conti sta per diramare la lista dei big e quindi con questa rubrichetta si può cominciare a fare un conto alla rovescia. Proverò con essa a rievocare alcuni dei momenti clou delle passate edizioni di Sanremo seguendo alcuni filoni. Il primo è dedicato alle eliminazioni clamorose, che occuperà qualche puntata. Eliminazioni che sul momento dispiacciono, fanno inorridire, dubitare della stessa legittimità del Festival; quante volte hanno fatto gridare allo scollamento fra i gusti dei votanti (demoscopiche, televoti o giurie di qualità che fossero) e quelli effettivi della massa: trovo però che siano un osservatorio interessante. Mi soffermerò solo su quelle canzoni escluse dall’accesso alla serata finale o da un meccanismo di eliminazione (non, ad esempio, sugli ultimi posti o sulle esclusioni alla selezione preliminare delle canzoni); inoltre, non sarò esaustivo, andrò su quelle più famose e che mi hanno colpito di più.
Adriano Celentano – Il ragazzo della via Gluck – Sanremo 1966

Uno dei primi esempi di canzone ecologista. Già all’epoca soffiava forte la polemica anti-ambientalista, e dunque, per il suo contenuto che oggi malamente chiamerebbero gretino e green, è finita fuori dal Festival. In questo articolo Celentano racconta di come l’ispirazione profonda del pezzo gli fosse venuta prestissimo, mentre si rotolava con i pantaloncini a bragaloni sul cortile della via Gluck e facesse il bagno nel naviglio della Martesana (a naso oggi sarebbe da dire “don’t try this at home”). In quella via ci era nato: allora estrema periferia di Milano, e là dove c’era l’erba ora c’è una città. Un pezzo sulla cementificazione selvaggia, in un periodo in cui fra boom economici e migrazioni interne si costruiva a rotta di collo, e non solo a Milano. La fame di case era molta, ma la speculazione altrettanto. Forse una coscienza ecologista non era ancora mainstream: Adrianone la portò sul palco del Casinò di Sanremo (non si svolgeva ancora all’Ariston) e non andò bene, ma solo in termini di gara. L’esclusione non impedì al pezzo di diventare un grande successo: il disco raggiunse il secondo posto nella classifica italiana (ma è conosciuto anche all’estero) e risultò il 10º più venduto nell’anno 1966; senza contare che è indubbiamente, piaccia o non piaccia, una canzone che ha attraversato gli anni.
Nell’articolo di Repubblica Celentano prova a interpretare così l’eliminazione:
Non me lo spiego neanche adesso per la verità, ma Sanremo è famosa per “bocciare” ciò che non corrisponde alle liturgie sanremesi. Sono tanti gli esempi che si potrebbero fare: Battisti, Vasco Rossi, Dalla… Il successo di Il ragazzo della via Gluck credo sia da ricercare nell’originalità del testo e della musica. Una ballata interpretata da me che venivo dal rock in cui improvvisamente “parlavo” di un problema sociale, in quel momento, sconosciuto ai più. Ricordo che partii dalla stazione Centrale di Milano per andare al Festival e stranamente ero da solo con una piccola valigia. Appena il treno si mosse, un giornalista dell’Avanti!, si mise a rincorrere il treno e me che ero affacciato al finestrino (allora si poteva) per chiedermi cosa pensavo di fare a Sanremo. Risposi: “Niente perché mi bocceranno e sarò scartato subito”. Così avvenne e fu il successo della canzone. Quindi i cantanti che vanno al Festival dovrebbero sempre sperare in una bocciatura che li porterà dritti al successo! E ciò anche negli anni successivi accadrà spesso.
Per portare questo pezzo Celentano rinunciò a un altro brano che poi si rivelerà un classico della musica italiana: Nessuno mi può giudicare, che esplose in quella stessa edizione grazie a Caterina Caselli. Insomma, sarebbe caduto sempre sul morbido.
CIAO AMORE CIAO di Luigi Tenco – Sanremo 1967
Questa è un’eliminazione tragica, purtroppo. La notte successiva all’esclusione da Sanremo ’67, infatti, Luigi Tenco verrà trovato morto nella sua camera d’albergo (al tristemente noto Hotel Savoy), evento che segna profondamente la storia del Festival. A dire il vero, nella serata successiva Mike Bongiorno gli dedicò solo un frettoloso saluto: il concetto di the show must go on portato agli estremi livelli. L’inizio della seconda serata, quella successiva al triste evento, fu infatti questo
Signore e signori, buona sera. Diamo inizio alla seconda serata con una nota di mestizia per il triste evento che ha colpito un valoroso rappresentante del mondo della canzone. Anche questa sera, per presentare le canzoni, è con me Renata Mauro. Allora, Renata, chi è il primo cantante di questa sera?

Lasciò una lettera che suonava come un “atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e a una commissione che seleziona La rivoluzione”. Ci andò di mezzo anche la povera Orietta (che si dichiarò un po’ vittima di quella sprezzante discriminazione artistica); mentre “La rivoluzione” era un brano di Gianni Pettenati che era stato escluso e poi ripescato. Tenco non aveva avuto neanche l’onore del ripescaggio, ma tragicamente era entrato nel mito del cantautorato italiano.
Non mi sto a soffermare su tutte le teorie che si sono affollate attorno alla morte di Tenco e che dubitano del suicidio, non sta a me dirlo e neanche interessa qui.
È importante invece notare come questa canzone in sé segna un vero e proprio spartiacque nella storia della musica italiana, come dice lo stralcio di un articolo dalla rivista “Il Mulino”:
La morte di Tenco non fu solo una pagina triste della storia italiana. Significò una rottura senza precedenti nella tradizione musicale del nostro Paese. Al contrario della stampa di destra, ma anche di molti intellettuali di sinistra, poco interessati alla vicenda, vide bene Salvatore Quasimodo quando considerò che Tenco volle «colpire a sangue il sonno mentale dell’italiano medio». La valenza simbolica del suo gesto si convertì in una sorta di trauma collettivo che permise, in fin dei conti, la creazione della canzone d’autore italiana, come ha osservato il sociologo Marco Santoro nel suo volume Effetto Tenco (il Mulino, 2010). Dopo il gennaio del 1967, era infatti divenuto impossibile coniugare i mondi della cosiddetta musica di consumo – rappresentata da Sanremo e dalle logiche discografiche – e quella che Umberto Eco chiamò la canzone «diversa», cioè il cantautorato e la musica folk impegnata. […] Dopo essere stato per lo più ignorato in vita, Tenco venne sacralizzato a posteriori, soprattutto da una certa cultura di sinistra che precedentemente si era dimostrata sorda e cieca a quel mondo. Solo dopo la sua morte, insomma, lo si riconobbe come una figura di svolta e fondativa di una nuova tradizione.
Proprio come il brano di Celentano, la canzone di Tenco parlava di una realtà tipica di quegli anni: quella dei grandi movimenti di persone che, dalla provincia rurale o dalla provincia in generale, si trovavano a cercare fortuna nelle città, provando un enorme senso di spaesamento:
E poi mille strade/Grigie come il fumo/
In un mondo di luci/Sentirsi nessuno/
Saltare cent’anni/In un giorno solo/
Dai carri dei campi/Agli aerei nel cielo/
E non capirci niente e aver voglia di tornare da te.
Era un’Italia che si modernizzava molto repentinamente. Sia i pezzi di Celentano che quelli di Tenco parlavano di questioni molto calde in quegli anni: le eliminazioni rappresentavano un tentativo (fallito) di rimozione?
UNA ROSA BLU di Michele Zarrillo – Sanremo 1982

Dopo aver esordito all’interno di gruppi progressive, Michele nostro, con un bel casco di capelli ricci molto tipici dell’epoca che lo rendevano assai pacioccone, dalla seconda metà degli anni Settanta si dà al pop melodico con il nome di Andrea Zarrillo (i discografici vollero così, il nome Michele li disturbava, evidentemente) e abbiamo le prove con questa copertina che allego contestualmente al seguente post (tratta dal sito Vinylmail).
Esordisce a Sanremo 1981 con “Su quel pianeta libero” arrivando ottavo; l’anno dopo si ripresenta proprio con uno dei suoi brani più famosi, “Una rosa blu”, ma viene addirittura eliminato. Va precisato che quell’edizione 1982 accadde un cosiddetto bordello: assieme a lui venne escluso dalla finale anche Claudio Villa, che mise in dubbio i meccanismi di voto delle giurie alzando un enorme polverone. Per cercare di calmare tutto questo bailamme, l’organizzazione del Festival istituì una sorta di sorteggio riparatorio, che avrebbe riammesso uno dei cantanti eliminati. E indovinate chi uscì da quell’urna? Proprio Michele, ma “La Stampa” dell’epoca ci dice che: “il “reuccio” (Villa, NdA) ha ottenuto che fosse sorteggiato, per cantare fuori gara nella finalissima, uno fra i cantanti esclusi (e la fortuna è toccata a Michele Zarrillo). Ma le case discografiche non hanno accettato questo compromesso, e, nonostante l’annunciatrice l’avesse chiamato sul palco (l’annunciatrice era Patrizia Rossetti!, NdA), Zarrillo obbediente ai suoi boss non si è presentato”. Il sito di Sorrisi e Canzoni conferma ciò anche se con qualche lieve discrepanza: “uno degli eliminati, attraverso un sorteggio, sarà ripescato e ammesso alla finale. Il «fortunato» è Michele Zarrillo, in gara con «Una rosa blu» (in una nuova versione, il brano avrà il meritato successo solo alla fine degli Anni 90), ma lui, d’accordo con la sua casa discografica (la Cbs), deciderà di non presentarsi sul palco per solidarietà con Ravera” (Ravera era il patròn del Festival di allora, che venne messo in discussione da Villa).
La canzone non ottenne grande risonanza, e dovette attendere il 1997 per riemergere prepotentemente: inserita nell’album (fortunato) “L’amore vuole amore”, con un nuovo arrangiamento, diventerà un classico del repertorio zarrilliano e anche un po’ della musica italica, dai! Con un post su Facebook del 19 gennaio 2022, Zarrillo festeggiò il quarantesimo anniversario dell’uscita del pezzo: molti commenti erano increduli dell’età della canzone, ritenendola una hit anni ’90. Rimase sottotraccia quella prima uscita e quell’eliminazione, che visto il successo poi ottenuto fa un po’ impressione. Un happy ending gradevole dopo la bellezza di quindici anni.
1950 di Amedeo Minghi – Sanremo 1983
Una canzone dal percorso strano. Eliminata praticamente subito in quel Festival di Sanremo 1983 a seguito del primo ascolto, non ottenne neanche un grande riscontro nel periodo successivo; eppure riemerse in modo “carsico”. Minghi peraltro aveva già pubblicato due album in precedenza (senza furoreggiare particolarmente) ma nel 1983 arrivò comunque all’Ariston come “Nuova Proposta Italiana” a rischio eliminazione (nella stessa serata di Zucchero, Fiordaliso e Donatella Milani!), rischio che puntualmente arrivò (i tre sopra citati invece filarono tutti in finale sorpassandolo amaramente).

Eppure, qualcuno si accorse del brano, soprattutto nel reparto over del pubblico: prendendo sempre a riferimento “La Stampa” dell’epoca, si dice “Al pubblico dell’Ariston è piaciuta Vacanze romane dei Matia Bazar. Ieri sera molti appassionati di musica leggera che hanno già superato la boa degli -anta avevano un rimpianto: la bocciatura della canzone “1950” di Minghi. In pieno revival il testo, firmato da Chiocchio-Minghi, ha riproposto vecchie emozioni, tempi andati, nostalgia”. Persino lo stesso organizzatore del Festival, Gianni Ravera, mastica amaro su quest’eliminazione: “Gianni Ravera è passato al contrattacco. L’anno scorso le «sue» giurie furono messe sotto accusa, adesso è lui a lanciare critiche: «Rimpiango alcuni brani esclusi, e, in particolare, “1950” di Amedeo Minghi, che mi ricorda il primo Dalla». E aggiunge: «E* difficile dare un voto in tre minuti. Per evitare questi inconvenienti, molto meglio avere un paio di giurie di salvataggio, curate dai giornalisti e dall’organizzazione»”. Tematiche che alla vigilia del 2025 appaiono ancora fortemente attuali!
Il pezzo si prenderà una bella rivincita negli anni a venire e la storia d’amore di Serenella dell’immediato dopoguerra effettivamente un po’ meritava. Sarà anche la re-interpretazione di Gianni Morandi ad aiutarla: Gianni, infatti, la inserirà come cover sul lato B del suo successo di due anni dopo “Uno su mille”. E, come ulteriore aggiunta al finale già lieto, nel 2024 ottiene il disco d’oro nella settimana #24 della FIMI! Mammamia come mi piacciono queste cose. Bravo Amedeo (anche se qualche dichiarazione ultimamente è stata un po’ discutibile, ma quando c’è da celebrare, si celebra).
Paola Turci e i suoi primi Sanremo: 1986, 1987, 1988, 1989
Quando si parla di “tigna” e determinazione dovremmo guardare ai primi Festival a cui partecipò Paola Turci. E soprattutto, dovremmo guardarci anche per capire che l’atteggiamento “usa e getta” che si riserva a molti cantanti dopo i primi insuccessi potrebbe essere in qualche modo rivisto.
Paola esordisce a Sanremo 1986 fra le Nuove Proposte con brano scritto per lei da un bravo cantautore, Mario Castelnuovo, che appare improvvisamente come voce dal nulla in questo stesso brano, “L’uomo di ieri”. Una canzone per quanto mi riguarda bellissima, sentitela: una sorta di tango languido. Ma niente da fare: come accade a brani raffinati e non immediati che vengono sottoposti al “dentro o fuori” al primo ascolto, “L’uomo di ieri” non passa in finale. Wikipedia, che mi auguro sia attendibile, alla pagina personale di Paola ci dice però questo su quella canzone: nonostante l’eliminazione dalla gara, la giovane cantante desta l’attenzione della critica specializzata per via di uno stile musicale già molto personale, ricevendo anche gli elogi, tra gli altri, di Paolo Conte.
Il ritorno di Paola fra le Nuove Proposte è immediato: a Sanremo 1987 porta “Primo Tango”, si prende il Premio della Critica ma viene nuovamente eliminata.
Ci riprova nel 1988, sempre da Nuova Proposta: è il momento di “Sarò Bellissima” ma niente da fare, nonostante arrivi un altro premio della critica riesce solamente a superare il primo turno: si ferma in semifinale e non accede alla finalissima a quattro. È la donna delle splendide eliminazioni, la più amata dalla stampa, eppure le prime posizioni e la consacrazione non sembravano a portata di mano.
Anche in questo caso l’happy ending è dietro l’angolo: l’anno successivo ci riprova e, quando ormai persino l’organizzazione è stanca di definirla “nuova proposta”, si rifà vincendo una nuova categoria chiamata “Emergenti”, unicum di Sanremo 1989, dedicata a chi aveva alle spalle un passato discografico e non era un elemento di primissimo pelo, ma che comunque non era mai giunto davvero al top. Categoria forse creata ad hoc per non doverla più inserire fra gli esordienti che avevano già esordito, e per il quarto anno di seguito. Il pezzo con cui la vince è “Bambini”, di certo non un brano di lana caprina, sicuramente il suo più rappresentativo. Marinella Venegoni su “La Stampa” parlò così di lei: “La prima [Paola Turci] è una veterana del Festival, dal quale ha collezionato in passato perlopiù amarezze. Due volte eliminata dalla Nuove Proposte, due volte vincitrice del Premio della Critica, e non le è bastato. [Marinella, erano addirittura tre le volte, ma ti vogliamo bene lo stesso] È tornata, rischiando l’ennesima brutta fine […] ma la tenacia le ha dato ragione, ha vinto con una canzone delicata e importante, Bambini […] Adesso, a non tornare più al Festival non ci pensa neanche: “Ci sono ancora i big da scalare, non ci sono mai arrivata, lo debbo fare”. E lo farà. Alla voce perseveranza sul vocabolario, un’accezione è dedicata sicuramente a Paola Turci al Festival di Sanremo.
C’è da riflettere, come si diceva prima, anche sul fatto che molto spesso di questi tempi venire eliminati dal Festival per un giovane è praticamente una morte artistica. Paola è stata decisamente attesa, e menomale, direi…
Sanremo 1988: sfilata di eliminati illustri
Mentre Paola Turci si fermava in semifinale – non giungendo alla finale per il terzo anno consecutivo – c’erano anche altri che assieme a lei non festeggiavano il non passaggio. Visti tutti insieme oggi destano abbastanza sensazione, perché guardando la classifica delle Nuove Proposte di quel Festival chi arrivò lontano cadde nel dimenticatoio o quasi, mentre gli eliminati si prenderanno quasi tutti una grande rivincita. Il mondo capovolto, praticamente.
Oltre a Paola Turci, che almeno una semifinalina e un premietto della critica li conquistò, uscì immediatamente un filotto di cinque cantanti di cui si sentirà parlare, con più o meno successo, ma che in un certo senso…saranno famosi: Andrea Mirò, Bungaro, Mietta, Mariella Nava e…Biagio Antonacci. Tutti fuori!
Guardatelo, ad esempio, il giovane Biagio. Introdotto da Miguel Bosè, che parafrasando una sua nota partecipazione televisiva, avrebbe potuto gridargli: corri, corri, corri, verso la celebrità! Ma non adesso, non ancora.
A vincere quell’edizione dei Giovani fu un gruppo romano chiamato “Future”, che un grande futuro…non l’avrà. Peraltro, con un brano diciamo abbastanza naif, per essere buoni, dal titolo “Canta con noi”. Meglio di no, come se avessimo accettato, grazie. Ma, comunque, i Future si conquistano l’onore della sigla di chiusura di questo post!
Alla prossima puntata!
