Ecco inaugurata una nuova rubrica del menga per voi: il racconto di una serie tv. ‘Na cosa nuova, eh? Ma a me non interessa, e da par mio, ci provo. Tiè.
Parliamo di Tales of The City, inserito nell’attuale catalogo Netflix: una serie basata sui racconti di Armistead Maupin, uno scrittore americano che indaga la vita della comunità queer di San Francisco assumendo l’ottica di una peculiare e accogliente comunità, che fa capo a una proprietà chiamata Barbary Lane e la sua carismatica proprietaria Anna Madrigal (interpretata nientepopodimeno che dal premio Oscar Olimpia Dukakis). Parlo in particolare del reboot di altre due precedenti trasposizioni sul piccolo schermo, andate in onda fra gli anni Novanta e i primi anni 2000, reboot che peraltro vede il ritorno di alcuni attori già comparsi nelle prime versioni.
Non mi soffermerò troppo sui dettagli relativi alla serie, secondo me da vedere. Non farò lo spoilerialista. Al sottoscritto è piaciuta non poco, anche perché si distacca leggermente dal prototipo di molte proposte Netflix “sesso, sangue e scandalo”, in cui dominano tinte forti e toni accesi. Per carità, in fondo a noi/a me piace anche così, altrimenti potevamo rimanere ancorati a molte fiction Rai con i sussurri e i colori pastello; ma, ogni tanto, una serie più “lirica” ci vuole.
![Tales of the City | Teaser [HD] | Netflix - YouTube](https://i.ytimg.com/vi/93PXZM1InyI/maxresdefault.jpg)

Ma la questione identitaria è ovviamente preminente anche in tutti gli altri personaggi, che si trovano a fare i conti con il proprio orientamento sessuale, ciascuno con le sue personali sfumature, con una condizione (ancora non del tutto) di avvenuta emancipazione, anche con vecchie ferite, storie spesso di relativo successo ma non solo. La risposta non è sempre univoca, conciliante e consolante, e questo è un altro punto a favore della serie.
Non manca un filone giallo, in Tales of The City, che coinvolge la matriarca Anna Madrigal. Le origini di Barbary Lane, infatti, sono “macchiate” da una particolare e difficile scelta che Anna aveva compiuto, a transizione non ancora avvenuta, quando da transessuale inserita in una ancora ostile San Francisco del 1966 muoveva i suoi primi passi in città. Il conto di questa scelta viene presentato molti anni dopo, nei nostri giorni, sotto forma di biglietto anonimo e minatorio, che mette in crisi il mondo di un’Anna ormai novantenne e la stessa vita della piccola ma accogliente comunità di Barbary Lane.

Le motivazioni e i contorni di questa vicenda vengono riassunti nell’episodio forse fondante della serie, il più bello: l’1×08, Days of Small Surrender. In esso si raccontano appunto le origini del percorso di Anna a San Francisco: un mini-film che è di fatto una piccola rievocazione storica, un compendio della condizione queer dell’epoca. Speranza di una nuova vita futura, rassegnazione a una vita attuale che è spesso umiliazioni e difficoltà. Il personaggio di Anna, in prima persona, sperimenta un tentativo di liberazione dai crudeli condizionamenti a cui la comunità trans era costretta: ma lo fa in maniera personale, sceglie solo in parte la strada della lotta dura e continua come alcune sue compagne di avventura; trova un amore ma alla fine, appunto, compie una scelta controversa che è l’inizio di una nuova, lunghissima vita.
È singolare il fatto che il bellissimo episodio, il vero episodio culminante della serie, si inscriva fuori dallo spazio temporale in cui si muove la serie e i suoi personaggi. Potrebbe essere sintomo di una debolezza delle trame “attuali”? Preferirei parlare di coronamento, di un ottimo coronamento alle vicende attuali; perché, per quanti cambiamenti ci possano essere stati, un filo rosso continua a mantenersi fra il 1966, l’epoca AIDS fra gli Ottanta e i Novanta (toccati attraverso il personaggio di Michael), e il mondo attuale: Tales of The City lo testimonia bene.
